C’è una tecnica, che affonda nell’antica arte giapponese, che fa di un coccio rotto un pezzo unico e prezioso. È la sapiente pratica artigianale del kintsugi, che dalle tradizioni del 400 nipponico arriva fino ai nostri giorni portando con sé non solo la maestria del metodo orientale ma anche l’approccio ad una filosofia di vita.
Letteralmente Kintsugi significa “riparare con l’oro” ed infatti tale pratica consiste proprio nel riparare oggetti, per lo più in ceramica, utilizzando una mistura di lacca e polveri di metalli preziosi, come oro, bronzo e argento, colati tra le crepe. L’eccezionalità di questa forma d’arte è quindi nella nuova destinazione che riesce a donare all’oggetto rotto: non più rifiuto ma opera d’arte. Ridisegnati nei frammenti riassemblati, gli oggetti si ricompongono infatti in un’altra forma recuperando una nuova bellezza che sta proprio in quelle riparazioni e nella fragilità messa in evidenza dall’oro, dal bronzo e dall’argento. La crepa si trasforma in decorazione, le irregolarità dei pezzi si trasformano in intrecci unici ed esclusivi.
Una pratica che sa di tradizione e storia
Sembra che questa pratica del Kintsugi si sia diffusa in Giappone sotto lo shogunato Ashikaga. Si tramanda che lo shogun Ashikaga Yoshimasa avesse accidentalmente rotto la sua preziosa tazza da tè e che per farla riparare l’avesse spedita addirittura in Cina per consegnarla alle mani di esperti ceramisti cinesi. A quel tempo però le riparazioni difettavano molto in estetica e funzionalità, pertanto la tazza tornò allo shogun “rinsaldata” con grappe di ferro, brutte e inadeguate. Insoddisfatto, lo shogun, si rivolse a degli artigiani giapponesi che per accontentarlo pensarono di trasformare la tazza in un gioiello riattaccando i cocci con una resina laccata e polvere d’oro. Il risultato fu quello che possiamo considerare il primo manufatto realizzato con una tecnica che poi è diventata una vera e propria ideologia artistica, fondata su concetti di filosofia Zen.
La tecnica della precisione e della pazienza
Per praticare l’arte del kintsugi occorre molta precisione e tanta, tanta pazienza. Ci sono passaggi ed accorgimenti ben precisi da eseguire che in certi casi richiede anche un mese di lavoro. Per riassemblare i pezzi viene utilizzata una lacca specifica (urushi) ricavata da una pianta locale giapponese. Questa lacca va fatta essiccare in tempi che vanno da tre giorni ad una settimana, in un ambiente che deve avere un giusto livello di calore (10°- 20°) e di umidità (70 – 90%). Questa viene usata sia per creare il collante per la ceramica (con aggiunta di farina di riso o grano) sia per quello per le polveri dei metalli. Le parti dell’oggetto rotto vengono poi stuccate, carteggiate e pennellate con lacca urushi di color rosso su cui viene in seguito fatta cadere la polvere di metallo.
La metafora di una filosofia di vita
Il kintsugi ci restituisce così un oggetto che rinasce più bello di prima ed è questo anche il messaggio di fondo che ci vuole consegnare. Metaforicamente ci dice che per ogni nostra cicatrice c’è la possibilità di rinascere e tornare a splendere. In quest’arte sono racchiusi infatti tre concetti essenziali della filosofia Zen: mushin, anicca e mono no aware. Il primo attende al pensiero del “lasciar correr le cose”; il secondo a quello del prendere coscienza della loro impermanenza; il terzo a quello del “sentire empatico” della loro decadenza, considerando – quest’ultima – un valore e non un difetto. E’ un po’ quello che oggi ci insegna il diffuso concetto di resilienza: autoripararsi, imparando ad alzarsi dinanzi le difficoltà ed elaborando la sofferenza in maniera che possa essere un’occasione di rinascita.
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