“L’innovatore? Direi che è una persona che sente un vuoto da colmare, laddove tutti gli altri sono invece contenti e soddisfatti”. Giovanni Allevi, compositore geniale e pensatore raffinato, non nasconde la timidezza mentre parla del suo modo di fare musica.
Quando si è reso conto che stava innovando qualcosa nella musica?
Non lo so, però so dire con certezza quando ho capito che mi mancava qualcosa. Ero all’ottavo anno di composizione a Milano. Avevo l’abitudine di sedermi in un posto preciso, a San Babila, ad osservare i ragazzi. Da un lato c’erano dei giovani violinisti un po’ nerd, dall’altro i fighetti che se la spassavano. Quella era la metafora della frattura… Studiavo la dodecafonia, la musica concreta, ma non mi sembrava che rappresentassero la mia generazione e questo mi causava un senso di vuoto angoscioso…
Crede che questo atteggiamento possa creare disagio negli altri?
In chi lo vive sicuramente. All’epoca, dopo dieci anni di Conservatorio, ero di fatto disoccupato… Mi trasferii a Milano… Ho trascorso tre anni chiuso in casa nel mio monolocale… Non ho parlato con nessuno, ma ho avuto il privilegio di poter pensare.
E a cosa pensava?
Al futuro della musica. E ho intuito che quello che serviva era una classica contemporanea, Chopin e Rachmaninov con le influenze del contemporaneo…
Potremmo definirla un disadattato incompreso?
Direi di sì (ride). Per vedere lontano è fondamentale saper vedere anche molto indietro. Solo se conosci il passato puoi avere gli strumenti per comprendere il futuro…
Il passato, però, va anche demolito, o no?
… Può sembrare doloroso, ma è fondamentale per iniziare un percorso di libertà. Il parricidio intellettuale nei confronti dei grandi del passato è necessario.
Lei chi ha ucciso?
Beethoven: lui sta sempre lì, ma è indispensabile raccontare musicalmente il presente. Per questo nei miei concerti c’è sempre un ritmo vicino alla sensibilità dei ragazzi di oggi…
Nel suo libro “La musica in testa” racconta del suo primo concerto a Napoli, quando in sala c’erano solo cinque persone.
Direi che è il concerto che ricordo con maggiore affetto. Ero teso ed ansioso, ma appena iniziai a suonare svanì tutto. Suonai con passione per quelle cinque persone…
La felicità invece che cos’è?
Come diceva Socrate, non essere nulla. Che grande liberazione… Se non sei nulla non sei nella condizione di giudicare gli altri né di essere giudicato. Direi che è una posizione di grande forza, non di debolezza.
Articolo con intervista completa sulla rivista IconArt Magazine n°10