Francisco Goya, Vincent Van Gogh; anno di nascita 1746 il primo, 1853 il secondo; giorno unico 30 marzo.
Oggi si ricordano questi due grandi artisti: l’uno precursore dell’arte moderna, l’altro dell’arte contemporanea; l’uno anticipatore di tendenze romantiche e di realismo popolare, l’altro di tendenze espressioniste. Entrambi geni rivoluzionari, tormentati al limite della follia e visionari. Li omaggiamo citando due delle loro opere rappresentative
Francisco Goya, “La casa dei matti”
Un’opera di denuncia sociale, in cui l’artista riprende il tema della follia a lui non nuovo, trattandolo da due punti di vista differenti: il grottesco e caricaturale atteggiamento del comportamento del folle e il disagio dello stato di rifiuto e emarginazione a cui sono costretti i malati mentali. Ammassati in uno spazio chiuso in cui riverbera l’unica fonte di luce dalla finestra posta in alto, le figure si delineano in corpi nudi o coperti di stracci, movimenti scomposti, pose bizzarre che diventano allo stesso tempo anche allegoria e satira della società attuale, in una sorta di scimmiottamento dei comportamenti di clero e alta milizia. È facile rintracciare in questo dipinto le due tendenze che hanno caratterizzato l’arte di Goya, tra il realismo della crudezza delle immagini dipinte e i toni romantici del tema trattato
Vincent Van Gogh, “Campo di grano con corvi“
È l’opera considerata il “testamento spirituale” dell’artista, forse ultimo dipinto prima del suicidio, quasi come un addio scritto nel suo linguaggio, quello delle pennellate larghe e dense di colore che traducono il suo disagio esistenziale. I contrasti di colore tra i toni caldi del campo di grano maturo e freddi del cielo, i tratti più o meno lunghi e convulsamente spezzati come in un paesaggio mosso dal vento, i segni vorticosi che tracciano le nubi, il cielo a macchie nere che accoglie il volo zigzagante dello stormo di corvi neri… Tutto sembra il preludio di una tempesta e presagio di morte. In questo ondeggiare di contrasti e contraddizioni anche i tre sentieri che solcano il campo sembrano partecipare a questa sorta di lutto preannunciato, dirigendo le proprie corsie vuote verso l’indefinito e l’ignoto.